Rischio penale per la determinazione fraudolenta della maggioranza societaria

Finisce in carcere l’amministratore che attesta falsamente la presenza di soci in assemblea o attribuisce ad un socio la titolarità di quote non sue

/ Venerdì 13 gennaio 2012
FONTE EUTEKNE.INFO
Commette il reato di “illecita influenza sull’assemblea“ l’amministratore di una società che, nell’intento di non far emergere perdite di esercizio, fornisce una falsa rappresentazione della presenza della maggioranza societaria alle assemblee – facendo figurare come presente, tramite falsificazione della relativa firma sul verbale, un socio neppure convocato ovvero attestando la titolarità in capo all’unico socio presente di un numero di quote non corrispondente alla titolarità reale – così ottenendo l’approvazione del bilanciod’esercizio e la rinnovazione della carica di amministratore. È questo il principio di diritto desumibile dalla sentenza n. 555, depositata ieri dalla Corte di Cassazione.

L’amministratore di una srl (con tre socie, ciascuna al 33%, una delle quali era sua moglie) veniva condannato, sia in primo grado che in appello, per il reato di cui all’art. 2636 c.c. (illecita influenza sull’assemblea). Tale norma – finalizzata a garantire la trasparenza e laregolarità del processo formativo della volontà assembleare – punisce con la reclusione da sei mesi a tre anni chiunque, con atti simulati o fraudolenti, determini la maggioranza in assemblea, allo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto (ovvero un vantaggio di tipo patrimoniale o di altra natura non assistito da una legittima pretesa).

In particolare, all’imputato si contestava la determinazione della maggioranza assembleare con atti fraudolenti, impedendo di fatto alle “altre” due socie di prendervi parte. Tale risultato era ottenuto, in un primo caso, facendo figurare a verbale, accanto alla moglie, la presenza di un’altra socia, la quale, invece, non era stata neppure convocata; in un secondo caso, attribuendo falsamente alla moglie presente la titolarità di quote sufficienti per la valida costituzione dell’assemblea. Come evidenziato, per il tramite di tali atti l’imputato si assicurava, nonostante le perdite subite dalla società, sia l’approvazione del bilancio d’esercizio sia la conferma alla carica di amministratore.

Contro la sentenza della Corte d’Appello veniva proposto ricorso per Cassazione, deducendo la formulazione di una motivazione solo apparente in ordine all’esistenza degli artifici e dell’elemento soggettivo richiesti per l’integrazione del reato, nonché l’utilizzo di argomentazioni inconferenti a supporto del rigetto della richiesta di conversione della pena detentiva.
La Corte di Cassazione ritiene infondato il ricorso.

I giudici di legittimità sottolineano, in primo luogo, come la fattispecie contestata, dal punto di vista dell’elemento oggettivo, resti integrata da qualsiasi operazione che artificiosamente permetta di alterare la formazione delle maggioranze assembleari, rendendo così, di fatto, possibile anche il conseguimento di risultati vietati dalla legge o non consentiti dallo statuto della società. Tali attività fraudolente sono state obiettivamente individuate dai giudici di merito nelle attività sopra descritte. Si tratta di condotte artificiose e fraudolente adatte ad integrare, dal punto di vista oggettivo, il reato contestato, dal momento che si sono rivelate idonee a realizzare il risultato di fare apparire conseguita la necessaria maggioranza societaria ovvero, come richiesto dall’art. 2636 c.c., a “determinare la maggioranza” necessaria per il funzionamento dell’assemblea, altrimenti interdetto.

Anche con riguardo all’elemento psicologico – ovvero al dolo specifico connotato dalla finalità di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto – la Suprema Corte sottolinea come i giudici di merito abbiano adeguatamente evidenziato che il comportamento del prevenuto non possa trovare altra spiegazione se non quella di non rendere conto delle perdite che la società aveva subìto e di continuare ad agire indisturbato, senza subire il controllo delle altre due socie della srl, che avrebbero potuto esautorarlo. Il sottrarsi al giudizio delle altre due socie, in particolare, determinava il non indifferente vantaggio di continuare ad esercitare una carica altrimenti destinata ad essere revocata; carica che, invece, gli permetteva di controllare un’attività commerciale alla quale aveva interesse anche come marito di una socia al 33%.

L’intensità del dolo impedisce la conversione della pena detentiva

Il tutto rendeva evidente non solo l’esistenza del dolo richiesto, ma anche la particolare intensità dello stesso. Circostanza che, legittimamente, induceva i giudici di merito a rigettare anche la richiesta di conversione della pena detentiva ex art. 53 della L. 689/81. Infatti, la particolare intensità del dolo è uno dei parametri desumibili dall’art. 133 c.p., utili ai fini del corretto espletamento dell’onere argomentativo in materia.

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